Itinerari Mariani – rappresentazioni artistiche fino al XVII e XVIII secolo
Le rappresentazioni artistiche mariane del XVII e XVIII danno forma, luce e colore alla volontà della Chiesa della Controriforma di celebrare Maria nello splendore della sua Gloria, Regina del Cielo e della Terra, venerata da Santi ed attorniata da angeli adoranti.
Allegorie Mariane danno contenuto escatologico e catechetico alle variopinte decorazioni a marmi mischi e frammischi del barocco fiorito palermitano, al cui gusto si uniformarono nel corso di questi due secoli quasi tutte le chiese di Palermo e del suo “interland” modificando radicalmente, anche distruggendo e ricostruendo ex novo, le strutture del tempo medioevale.
Grandi mecenati delle arti furono le ricche Compagnie e Confraternite, che fiorirono in quel tempo e gareggiavano tra di loro con la costruzione e la decorazione dei loro Oratori, diversi dei quali intitolati alla Beata vergine o comunque con altari a Lei dedicati.
La Madonna del Rosario e Santi, 1625
Antonio Van Dick (1599 - 1641)
Dipinto su tela
Palermo, Oratorio del Rosario in San Domenico
L’oratorio serpottiano del Rosario in San Domenico, a differenza deli altri analoghi monumenti, si contraddistingue per la presenza di pregevoli dipinti che raffigurano i quindici misteri del Rosario e che costituiscono una vera e propria pinacoteca, prodotta dai principali artisti del tempo. Su tutti si afferma certamente la splendida pala della Madonna del Rosario tra i Santi Domenico, Caterina da Siena, Vincenzo Ferrer, Rosalia, Agata, Oliva, Ninfa, Cristina, opera del grande maestro fiammingo Antoon Van Dyck,posta sull’altare del presbiterio e voluta come ex voto nel 1625 per la cessazione della peste e arrivata in città da Genova nel 1628. L’affollata composizione è dominata dalla figura della Vergine con Bambino, che troneggia nella parte centrale del registro superiore tra una serie di puttini che reggono i simboli legati al culto del rosario, la cui corona viene consegnata a San Domenico. E’ importante sottolineare il contesto del dipinto, nato bel difficile periodo della pestilenza, che si concluse col ritrovamento delle reliquie di Santa Rosalia liberatrice. Van Dyck contribuiì non poco ad aggiornare l’iconografia della Santuzza secondo le nuove esigenze devozionali, dipingendola con gli attributi divenuti poi tradizionali. Santa Rosalia, rappresentata di spalle ed in ginocchio, quasi al centro del dipinto in basso, è riconoscibile dal saio e dai lunghi capelli biondi. Una nota di vivace icasticità è costituita dalla presenza del teschio (uno dei segni distintivi della santa), il cui fetore (simbolo della peste) costringe un bambino nudo a turarsi il naso in cerca di quella salvezza, assicurata dalla nuova patrona di Palermo. (Nota di Franco Brugnò)
L’Immacolata nel decreto di Dio, prima metà del XVII sec.
Pietro Novelli (attribuito) (1603 - 1647)
Affresco nella volta dell’ex Congregazione dell’Immacolata della Casa “Collegio Massimo dei Gesuiti”
Biblioteca centrale della Regione Siciliana "Alberto Bombace"- Via Vittorio Emanuele, 429, 90134 Palermo
L’affresco è “miracolosamente apparso”, è proprio il caso di usare questo termine, nel 1988, quando i locali nel dopoguerra destinati ad uffici furono ristrutturati per la realizzazione del Laboratorio di restauro: dismessi i controsoffitti, l’opera tornò a vedere la luce, dopo essere, altrettanto miracolosamente, sopravvissuta al crollo della soprastante sala di lettura. E, con nostra sorpresa, senza essere mai stato citata nei quattro secoli di descrizioni del Collegio[1]. Ne riportiamo così, quasi integralmente, il testo di Vincenzo Scuderi, a cui non sapremmo aggiungere altro.
“Il 27 Luglio 1624 il Pretore di Palermo... convocato il popolo al suono della campana del Palazzo Senatorio, propone ed ottiene, con solenne voto di devozione e difesa da parte dei presenti, di ricorrere, per la liberazione della città dalla peste, alla Immacolata Signora oltre che a Santa Rosalia. Il 15 Agosto, il Cardinale Giannettino Doria... formula in Cattedrale un ancor più solenne voto, giurato... da tutti i presenti. Da questi fatti, cui probabilmente contribuivano attivamente in sede pratica, nascevano anche, di sicuro, la determinazione ed il tema stesso che i Gesuiti assumevano nel fare ornare con quest’affresco, sin qui inedito, la volta (nulla purtroppo intravediamo alle pareti) della sala della Congregazione dell’Immacolata, da tempo (1589) ubicata lungo il lato orientale del cortile, a destra dell’ingresso principale. La scelta dell’artista e l’incarico esecutivo, sicuramente assai vicini ai voti ufficiali di cui abbiamo parlato, cadevano o sui Novelli padre e figlio (già sperimentati nel ‘22 con il grande arco effimero sul Cassaro per le feste di canonizzazione di Sant’Ignazio) o sul solo figlio Pietro, se l’affidamento fosse successivo al 6 Maggio 1625, data di morte di Pietro Antonio. A mio avviso questa seconda ipotesi è più attendibile, perché l’opera sembra di un’unica mano che non è certamente quella dello scolastico e manierista Pietro Antonio, ma quella, sia pure esordiente, del vivace inventivo e barocco-realista, Pietro.” (Nota di Giuseppe e Vincenzo Scuderi ... continua >>)
(1) Durante una nostra visita guidata, a metà degli anni ‘90, un anzianissimo “ex studente del liceo” (istituto che usò questi ambienti nei primi decenni del XX secolo) mi disse: me lo ricordavo che qui era dipinto”.
La Vergine offre lo stendardo missionario a Sant’Ignazio e San Francesco Saverio, 1670
Francesco Calamoneri
Dipinto su tela
Convitto Nazionale Giovanni Falcone– Piazza Sett’Angeli, 3 - Palermo
Vent’anni fa, le condizioni dell’opera (pessime quelle della tela ed altrettanto quelle di conservazione, poggiato per terra in un impolveratissimo vano alle spalle dell’antica cappella del Convitto) impedivano ogni attenta lettura.
Il dipinto, come abbiamo potuto dimostrare con i documenti relativi agli spostamenti delle opere post 1860, era originariamente collocato nella quarta cappella a sinistra di Santa Maria della Grotta, dedicata ai Quaranta martiri del Giappone: soggetto dunque legato alla collocazione, per celebrare il mandato missionario conferito dalla Vergine alla Compagnia di Gesù.
Vincenzo Scuderi ne ipotizzava, per quel che si poteva leggere, la paternità del “fiammingo Gerardi... strettamente sulla scia del Novelli” quale copista della “tela omonima del Monrealese in Cattedrale, qui specularmente replicata (i Santi a sinistra e la Vergine a destra) oltre che con l’eliminazione dello sfondo di paese in favore del fondo chiuso”[1]. L’ex Soprintendente, preoccupato, concludeva: “Quasi disastroso, per inaridimento e sollevamento del colore, è lo stato della tela; chi ne cercherà, quanto meno, i mezzi per l’urgente restauro?”
E infatti nel maggio del 2008, grazie a privati patrocini, il dipinto è stato restaurato, e collocato nello studio del Rettore del Convitto. Si è trattato di un duplice recupero, che ha bloccato un degrado che rischiava di compromettere l’esistenza stessa dell’opera e ha reso possibile accertare il nome del suo autore: la firma “FRAN(CIS)CUS CALAMONERI PIN.(XIT)”, emersa con la pulitura sul gradino in basso a sinistra, ha chiarito infatti che la tela è stata eseguita da Francesco Calamoneri, di cui possediamo solo poche notizie biografiche: nato a Messina, dove sarebbe stato allievo di Giovanni Quagliata, fu poi attivo a Palermo come pittore di tele e frescante.[2] Consentendo, ne scrisse Sergio Troisi[3] commentando la presentazione del restauro, di spostare “il baricentro figurativo di Calamoneri... verso quella congiuntura definita fiammingo-novellesca che caratterizza tanta parte della pittura a Palermo nella fase centrale del Seicento, tra Van Dyck e, appunto, Pietro Novelli”.
Rispetto alla tela del Monrealese, questa attribuisce al vessillo frusciante e alla calda cromia delle vesti ecclesiastiche una modulazione chiaroscurale e cangiante che manca all’opera novellesca. Appare ragionevole riferirla al settimo decennio del ‘600, sia perché è questo il periodo dell’attività a Palermo dell’artista (le decorazioni ad affresco nella chiesa del Crocifisso all’Albergheria nel ‘64, nella chiesa di Santa Chiara, sotto la guida dell’architetto Paolo Amato e in collaborazione con Antonino Grano nel ‘79, e nello stesso anno nella cappella della Soledad, opere per lo più perdute), sia perché in sincronia con gli anni dei lavori di “abbellimento”, intrapresi in Santa Maria della Grotta sotto la guida di Angelo Italia. (Nota di Giuseppe Scuderi)
[1] Si veda la scheda di Vincenzo Scuderi, a pagina 194 del catalogo Pietro Novelli e il suo ambiente.
[2] Per lo studio dell’opera si rimanda a Prime ipotesi per un profilo di Francesco Calamoneri, di S. Grasso, in Per Salvare Palermo, Fondazione Salvare Palermo, numero 22, 2008. Aggiungiamo qui la notizia che il Calamoneri avrebbe “nell’anno 1673 dipinto a fresco sul muro [della Cattedrale] prospiciente il monastero della Badia Nuova, e dietro la Cappella di Santa Rosalia, la Santa Patrona palermitana sostenuta dagli Angioli”, ma nel 1713 la pittura fu “rifatta”. D. D’Oca, Le edicole votive del quartiere Capo
[3] Sergio Troisi, La Madonna di Calamoneri. Una tela ispirata a Novelli, in La Repubblica, … 2008
Immacolata Concezione, 1680
Bottega dei Serpotta (1680)
Statua in stucco
Convitto Nazionale Giovanni Falcone, Piazza Settan'Angeli, 3 - Palermo
La statua era stata, sino al 1994, considerata perduta da tutti gli studiosi del Serpotta, pur essendo noto il documento[1] relativo alla sua commissione. La posizione originaria dell’opera era sicuramente il primo ballatoio della scala che sul finire del XVII secolo l’Italia stava realizzando nel portico, e in cui oggi possiamo nuovamente “ammirarla” seppur in una riproduzione fotografica quasi al vero.
La statua si trova in un’altra e diversa nicchia, già chiusa a vetri, nel primo ballatoio della scala settecentesca della grande aggiunzione, nella parte oggi in uso al Convitto, dove fu sicuramente trasferita durante il quarantennio dell’espulsione dei Gesuiti, tra il 1767 ed il 1805. Abbiamo già esposto le notizie, per lo più tratte dagli Annali del padre Narbone, ed in particolare che nel 1836 fu rabbellito il simulacro di Maria Santissima esistente nella scala maggiore; e sul finire del 1837, dopo una epidemia di colera, la statua dell’Immacolata sulla scala maggiore subì ulteriori migliorie, e fu sostituita l’antica cappelletta di stucco, un’altra nuova di molta vaghezza con cristalli e dorature... cioè l’attuale. Essenzialmente dovute al deteriorarsi di questi rabbellimenti (doratura a porporina, mantello colorato in azzurro, corona di stelle), oltre che al degrado in genere (le condizioni termoigrometriche dell’ambiente non sono delle migliori), le disastrose condizioni in cui, appunto, la studiammo quasi vent’anni fa.
Aveva scritto attorno al 1950 padre Guido Macaluso, in un suo poco noto articolo: “uno sportello di vetro sporco e sgangherato lascia intravedere la statua... ispirata dalla descrizione dell’Apocalisse (12,1): La Donna vestita di sole e la luna sotto ai suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”.
E così al generico piacere del recupero di un Serpotta si aggiunse quello più specifico relativo ad un Serpotta giovanile. Scrisse infatti Vincenzo Scuderi nel ‘94: “Non si conosce molto, infatti, di tale periodo, ma quel che si conosce (monumento bronzeo a Carlo II di Messina, colonne tortili del Carmine, grande cultra drappeggiata in Santa Cita, ...) giustamente è stato letto come impennata barocca che sarà mitigata più tardi, dalla compostezza che raffrena molte sculture allegoriche. L’Immacolata dell’ex collegio gesuitico porta molta acqua, evidentemente, alla conoscenza ed alla lettura di tale periodo, in cui le preferenze o inclinazioni di gusto molto probabilmente... devono leggersi sulla scia del padre Gaspare e in particolare delle sue due statue, l’Addolorata e la Maddalena, nel transetto sinistro della Cattedrale, ai piedi del Crocifisso trecentesco”.
Grazie a contributi privati, tra 1997 e 2000 si è potuto finanziare il restauro della statua e dell’edicola. Così ne scrisse Sergio Troisi[2]: “L’Immacolata è un’opera coeva delle Virtù che in quegli anni l’artista palermitano andava disponendo sulle mensole dell’Oratorio del Rosario in Santa Cita, e di cui riprende sia il modellato austero del volto che il mosso panneggiare barocco della veste. Un linguaggio profondamente debitore della statuaria berniniana e tardoberniniana conosciuta probabilmente attraverso le stampe e ancora distante da quella cifra di eleganza rocaille che caratterizza l’opera successiva del grande scultore palermitano”.
Alla precisa valutazione di Troisi riteniamo di dover aggiungere soltanto il richiamo al significato liturgico dell’opera, una Immacolata sì, candida e austera, ma pur sempre una Concezione, come dimostra la voluta rotondità delle mani, del collo, delle guance. (Nota di Giuseppe Scuderi)
[1] Giornale di Cassa dal 1689 al 1698 del Collegio, in F. Meli, G. Serpotta, 1934, II, p. 147
[2] S. Troisi, Riappare dopo secoli d’oblio l’Immacolata del Serpotta, in Giornale di Sicilia, … 1997
La Madonna del Rosario e Santi, 1695
Di Carlo Maratta (1625 - 1713)
Dipinto su tela
Palermo, Oratorio del Rosario in S. Zita
Sull’unico altare dell’oratorio è posto il pregevole dipinto, eseguito da Carlo Maratta ed inviato a Palermo da Roma nell’estate del 1695, fortemente voluto dalla Confraternita del Rosario , per la quale rappresentò motivo di orgoglio e di vanto nei confronti delle altre congregazioni laicali. Il Maratta era infatti un affermato maestro del classicismo barocco romano molto richiesto e di grande prestigio e quindi il dipinto costituiva uno status symbol per la Confraternita stessa, cosi come era avvenuto nel 1625 per l’analogo dipinto eseguito da Van Dyck per l’altro importante oratorio palermitano domenicano, quello del Rosario in San Domenico in via Bambinai. Il Maratta, consapevole del valore che il suo dipinto avrebbe rivestito a Palermo, volle rapportarsi con l’analogo dipinto eseguito dal collega fiammingo qualche decennio prima e richiese un disegno dell’opera del Van Dyck , che fu eseguito dal pittore palermitano Antonino Grano
Il quadro, che rappresenta La Madonna del Rosario e i Santi Rosalia, Rosa, Oliva, Caterina da Siena, Domenico e Tommaso d’Aquino, ebbe una positiva accoglienza a Palermo e fu largamente apprezzato dai fedeli , come comprovano le numerose repliche esistenti anche fuori dei confini palermitani in diverse chiese. (Nota di Franco Brugnò)
Immacolata Concezione, sec. XVII
Di Geronimo Gerardi (1595-1648)
Dipinto su tela
Palermo, Chiesa di S.Anna la Misericordia
Il dipinto, collocato sull’altare della cappella a sinistra del transetto, raffigura la Vergine Immacolata secondo un’iconografia poco diffusa nel secolo XVII, che prevedeva pure la presenza dell’Eterno Padre, che si compiace di Maria. Secondo il Mongitore, l’opera, di squisita fattura fiamminga, sarebbe di mano di Guglielmo Walsgard, che si stabilì definitivamente in Palermo e ne sposò una cittadina. Per molto tempo l’attribuzione dello studioso settecentesco è stata considerata attendibile ma recenti studi, supportati da confronti stilistici, considerano la tela in questione come opera di Geronimo Gerardi), nativo di Anversa e trasferitosi in Sicilia, dove lasciò diverse opere, tra cui la S.Rosalia nella madrice di Ciminna. Il pittore si spense a Trapani. (nota di Franco Brugnò)
Immacolata Concezione, sec. XVII
di Pietro Novelli (1603-1647)
Dipinto su tela
Palermo, chiesa dell’Immacolata Concezione al Capo
Il dipinto della Titolare della monumentale chiesa della Concezione al Capo, posto sull’altare maggiore, si attiene ad una diffusa iconografia, che presenta la Vergine, eretta e con le braccia conserte e circondata da angeli dalle ali perlacee, che reggono alcuni simboli mariani tratti dalle litanie lauretane, e da puttini, resi con notevole perfezione artistica.
L’opera, ascrivibile ad una fase matura dell’attività del pittore monrealese, considerato il più grande del suo periodo in Sicilia, rivela chiaramente le peculiarità del suo autore, la cui arte risulta composta da indubbie derivazioni vandychiane e riberesche. (nota di Franco Brugnò)
La battaglia di Lepanto, fine XVII sec.
Di Giacomo Serpotta (1656 - 1732)
scultura in stucco
Palermo, Oratorio del Rosario in S. Cita
La festa della Madonna del Rosario trae origine dalla battaglia navale di Lepanto, combattuta il 7 ottobre 1571 tra la flotta cristiana, risultata vincitrice, e quella ottomana. Il valore della vittoria cristiana fu di grande portata e non solo da un punto di vista militare ma generò un clima di rinnovato ottimismo nel mondo occidentale, che vide bloccato il pericolo incombente dell’avanzata musulmana in Europa . La Madonna venne considerata l’artefice della vittoria cristiana e per questo venne creato il titolo di “Regina delle vittorie”, associato a quello del Rosario. L’erezione degli oratori mariani domenicani è quindi intimamente legata a tale importante evento in segno di sentita devozione mariana.
Nell’oratorio del Rosario in S. Zita è riservato un posto d’onore alla rappresentazione della battaglia di Lepanto, che occupa buona parte della controfacciata interna e ne costituisce il fulcro ideologico e semantico. Giacomo Serpotta l’ha inserita tra i riquadri prospettici dei Misteri Gloriosi dedicandole uno spazio notevole, inserito entro un illusorio largo manto decorativo in stucco, sorretto da un gran numero di putti. L’apoteosi della Vergine è resa perfettamente nella parte alta del riquadro in cui San Domenico è testimone ideale della trionfo cristiano e riceve la corona del Rosario, pegno della vittoria, mentre in basso sono rappresentate le navi della flotta vincitrice con grande realismo plastico.
Il drappo con la rappresentazione della battaglia di Lepanto si pone quindi in corrispondenza ideale col quadro della Vergine posto frontalmente sull’altare dell’oratorio. (nota di Franco Brugnò)
Gloria della Madonna del Fervore, con la Trinità e Santi gesuitici in adorazione. Prima metà del XVIII sec.
Domenico La Bruna (1699 – 1763)
Affresco
Sala Fondi Biblioteca Regionale centrale
L’opera decora il soffitto della grande sala già destinata alla Congregazione della Madonna del Fervore, fondata nel 1628. Sembra quasi strano che l’opera sia sfuggita, anche se ben visibile nelle diverse destinazioni di questa sala della Biblioteca,[1] ai moderni studiosi della pittura siciliana del Settecento. L’attribuzione al pittore trapanese (destinatario di studi solo dalla seconda metà del XX secolo[2]) si fonda su valutazioni stilistiche e su un attendibilissimo dato storiografico: “Nella capitale dipinse il nostro Domenico varie stanze per uso di studio nel Collegio nuovo dei PP. Gesuiti”.[3] E’ quasi sicuro che l’accreditamento del La Bruna presso gli esigenti padri del Collegio palermitano si debba sia alla conoscenza che ne avevano i Gesuiti trapanesi, che ad una probabile presentazione da parte di Giovan Biagio Amico, che nel 1720 lavora per il Collegio all’apparato per la festa di incoronazione di Carlo VI.
Sul piano morfologico e stilistico, già nel colore è tipica del La Bruna la piacevole tonalità e l’ariosità del fondo rosa antico; e suoi sono anche i colori strutturali, a così dire, delle figure principali, il rosa-glicine del manto dell’eterno, l’azzurro stinto di quello della Vergine, l’oro rabescato della tunica e della pianeta di Sant’Ignazio, il grigio perla delle ali ed il rosso amaranto del mantello del grande Angelo, in basso.
E non meno tipica del colore ci sembra la forma delle singole figure e la composizione tutta. Le prime, accuratamente disegnate e composte in vista di una strutturazione delle immagini baroccamente ampia e quasi enfatica, ma sostanzialmente statiche e classicistiche sulla scena celeste, cui concorrono non meno statiche masse di nuvole a sostegno di figure e gruppi di figure. La composizione, pure consueta al La Bruna, si affida ad una schematica organizzazione degli spazi, in quattro blocchi trasversali di figure, dal grande Angelo all’Eterno. La resa espressiva, infine, in tutte le figure e sfumature, appare piuttosto convenzionale, specie nelle figure celesti, con qualche segno di maggior vivezza, sia nel volto che nei gesti dei Santi. (Nota di Giuseppe Scuderi)
[1] Nel 1875 Antonio Pennino (cit.) evidenzia che “questa sala è quasi il Museo della Biblioteca. Imperocchè ivi fu trasportato lo scaffale della libreria dell’oratorio di San Filippo Neri, lavoro prezioso per la materia e l’arte” ma non fa menzione, come gli altri descrittori del Collegio, delle pitture.
[2] Il La Bruna, come altri pittori trapanesi, non figura ad esempio nè nel manoscritto del Gallo del 1831 sui pittori siciliani, nè nel repertorio di Sgadari di Lo Monaco (Pittori e scultori siciliani dal Sei al primo Ottocento, 1942). Si veda ora ad vocem, a cura di M. Guttilla, il Dizionario degli artisti siciliani, Palermo, 1994
[3] G. M. Di Ferro, Biografia degli uomini illustri trapanesi, Trapani, 1830, I, p. 56
Immacolata, 1799
Di Filippo Quattrocchi (1738-1813)
Statua in legno policromo
TERMINI IMERESE, Chiesa Madre
Nel 1799 Filippo Quattrocchi realizzò la pregevole statua della Vergine Immacolata originariamente per la chiesa di San Francesco d’Assisi in Termini Imerese, che successivamente fu trasferita nella chiesa madre, dove ancora oggi si trova. L’opera, che è sempre stata oggetto di grande venerazione, rivela perfettamente la matrice culturale dell’autore, ancora legato a schemi legati alla grande tradizione barocca, riscontrabili nell’andamento curvilineo della statua e nella postura che richiama la lezione del rococo, in un periodo in cui non è stata ancora operata la svolta in senso neoclassico nella statuaria sacra, operata da Girolamo Bagnasco. Quattrocchi ebbe una fiorente bottega a Palermo ed operò in stretto contatto coi migliori pittori settecenteschi, quali Vito D’Anna. In questa statua infatti troviamo collegamenti stilistici con l’Immacolata, custodita a Ragusa Ibla e col mosaico dello stesso soggetto, custodito nella cappella senatoria a San Francesco d’Assisi a Palermo, il cui disegno fu ideato dal D’Anna stesso. (Nota di Franco Brugnò)